Un’occasione straordinaria per uscirne più altruisti

Don Ermis Segatti è esperto in tematiche interconfessionali e interculturali, partecipa frequentemente a dibattiti su questi e al- tri temi di grande attualità. Lo abbiamo intervistato su questo tempo sospeso, tra emergenza e fragilità.

Il Coronavirus potrebbe cambiare il mondo in meglio o in peggio?

«Potrebbe essere in meglio o in peggio o in entrambi i modi insieme. Gli sviluppi potrebbero andare verso un’esperienza alternativa di globalità positiva o di globalità negativa, in ogni caso legata a un trauma. Quella in senso positivo porterà ad agire nel mondo attraverso una variante urgente della cosiddetta universalità, dettata da una vera solidarietà. Dovessi usare una parola molto cara a Papa Francesco, direi una globalità in uscita per la ricerca, ad esempio, e per strategie di contenimento delle calamità».

A livello personale come potrebbe cambiare la nostra vita?

«Adesso c’è della solidarietà, ma anche della mancanza di solidarietà. La storia è un’occasione, non è una necessità inesorabile come vo- leva qualcuno. Dà delle possibilità che però possono trasformarsi in opportunità mancate. In ogni caso, oggi possiamo impreziosirci della consapevolezza che la precarietà è un aspetto radicale della vita. Noi siamo abituati a vivere, ma tutto può finire. Saperlo ci fa bene, pur nel dramma dei molti lutti attuali, perché sulla vita abbiamo una visione da padroni. Invece se c’è una cosa di cui non siamo padroni è proprio la vita. Questo dovrebbe generare, in positivo, un atteggiamento di profondo rispetto verso ciò che tu hai: occorre dunque più delicatezza nelle re- lazioni, perché ci rapportiamo con altre vite che come tali sono preziose. A volte noi ci banalizziamo troppo. L’attuale situazione di apprensione può essere tradotta in un atteggiamento di profondo rispetto della vita propria e altrui». Oltre al fatto che si muore ora in una solitudine angosciante.

«Essendo stato io a insegnare tre anni fa a Wuhan, dove è esplosa l’epidemia, in uno degli Istituti universitari e dipartimenti umanistici più importanti della Cina, sono rimasto molto colpito dagli occhi sbarrati del grande medico martire Li Wenliag sul letto di morte. Lui che, non creduto ed emarginato, per primo aveva individuato la pericolosità della malattia, giace- va in terapia intensiva dove tutto attorno era tecnologicamente attivo mentre lui era totalmente privo di relazioni. In questa immagine si vede che l’eccessiva presenza cautelativa della tecnologia crea uno scaricamento della persona rispetto a se stesso, agli altri e agli affetti più cari proprio nel momento in cui si avrebbe più bisogno di tali cose. Tutto questo andrà in qual- che modo recuperato e riumanizzato, a livello di vissuto e convissuto, se mai è possibile. Per me è stato uno dei motivi di maggior sofferenza e di condivisione a distanza, se non altro per recuperare queste vite dall’anonimato in cui finisco- no».

Domani, saremo più egoisti o altruisti?

«Saremo più altruisti se ci siamo coinvolti e tra- sformati in quella direzione. Perché l’egoismo è tendenzialmente istintivo di fronte al pericolo, è un riflesso diretto. L’altruismo, invece, non è un istinto e va coltivato per percepire l’altro come te e te come l’altro. Se noi riusciremo a fare di questo rischio personale un motivo per avvicinare anche gli altri nella condivisione, allora saremo certamente molto più attenti alla vita altrui, alla nostra, alle nostre relazioni. Se invece non coltiveremo tutto questo come persone, alla fine usci- remo fuori, dopo lo scampato pericolo, solo con una bella carnevalata».

Noi cambieremo la visione del mondo?

«Una cosa è certa: dopo questo tipo di esperienza in cui non c’è chi comanda e chi ubbidisce, perché siamo tutti sulla stessa barca, si creerà una occasione di collaborazione vera- mente eccezionale. Per analogia sarei quasi tentato di dire, ma senza voler con questo creare delle necessità fuori misura, che come c’è “voluta” la II Guerra Mondiale perché così si costruisse l’Europa Unita, io penso che potremmo essere analogamente spinti a creare una Unione Europea più compatta e rispettosa delle caratteristiche culturali di ogni nazione che la compone. Questo creerebbe il presupposto di unità mondiale tra imperi attuali che è stato un po’ il passaggio che ha già fatto il Vecchio Continente con i suoi imperi interni all’Europa. Ciò potrebbe essere un’occasione storica d’intesa che consentirebbe a dei diversi di mettersi insieme, riconoscendosi come di- versi, ma con un obiettivo condiviso».

La fede che ruolo può giocare in questo contesto?

«Io ritengo che in queste circostanze la fede rappresenti qualcosa di veramente straordinario. Intanto, perché si fa l’esperienza che la vita finisce. La fede è proprio uno di quei patrimoni attraverso i quali ci si interroga se tutto finisce veramente così. Noi abbiamo visita- to l’aldilà da grossolani e da padroni, come abbiamo fatto con la vita, come un “prêt-à- porter” di cose che sono veramente molto discutibili. Invece il seguito della vita, a cui la fede ci introduce, è uno degli interrogativi che devono essere in qualche modo ripresi, oltre che coltivati all’interno della tradizione cristiana. In questo momento si è diventati troppo manager dell’aldiqua».

Credere non è facile.

«Da sempre la fede cristiana dice che qui si è in costruzione di una vita che ha un seguito. Mentre noi siamo sempre molto sensibili alla povertà materiale, dobbiamo convincerci che c’è anche la povertà di fede. La società in cui viviamo potrebbe farci vedere che quest’ulti- ma è una grande povertà, certo assieme a tutte le altre, mentre invece di essa raramente si parla. Mi sembra che un po’ tutti semplifichi- no le cose dicendo che la fede “c’è chi ce l’ha” e “chi non ce l’ha”. La fede invece va cercata e coltivata, perché tocca direttamente la pro- pria coscienza. La fede può giocare un ruolo di promessa, nel senso pieno del termine. È una promessa che sfugge alla nostra padronanza, ma è una promessa. Non siamo noi i manager di quello, ma siamo quelli che possiamo mantenere viva tale promessa e cioè che le cose hanno un seguito e che non finisco- no».

Intervista a cura di TONINO RIVOLO