Come fiori recisi, cadono senza fare rumore. I petali accartocciati dalla carenza d’aria si sparpagliano intorno silenziosi, eppure il profumo si spande fuori dalle stanze dove hanno trovato la morte. Il loro ricordo va per le strade di Merlara, Minotte, nei paesi vicini di quella Bassa padovana dove hanno trascorso l’esistenza tra famiglia, campi, lavoro, sacrifici. Nessuno avrebbe pensato di congedarsi in maniera così terribile, dentro a un “lazzaretto” vietato al mondo. Loro, le 22 anziane vittime ospiti della struttura residenziale Pietro e Santa Scarmignan, avevano attraversato l’ultima guerra, avevano conosciuto la fame, però mai avevano sentito parlare di fame d’aria. E la paura più grande l’hanno provata alla fine: morire da soli, senza stringere la mano ai figli, ai fratelli, ai nipoti, almeno un’ultima volta, con un sorriso da portarsi dentro per sempre.

Nessuno ha potuto infilare alla mamma o al papà l’abito bello, quello che forse, con serena consapevolezza, era stato scelto scherzandoci sopra anche per esorcizzare il momento ineluttabile che sarebbe giunto a breve. Ma non ora. Non così. Nessuno di quei figli si è potuto prendere cura di quel corpo che lo ha generato, profumarlo un’ultima volta con una carezza. Nessuno si è potuto rifugiare – al momento – nel conforto del funerale: quelle poche manciate di minuti in cui scorre la vita, i legami riemergono, il bene fatto e provato salta fuori con lucidità. Il rito è indispensabile per celebrare la vita che è stata, per donare a chi resta la Speranza di quella che verrà. «Mi ha consolato vedere papa Francesco salire sull’altare in piazza San Pietro, da solo, con il suo passo incerto, piegato dagli anni e dalle preoccupazioni per l’umanità ferita. Mi sono sentito compreso in uno dei passaggi più duri della mia esistenza di uomo e di prete». Don Lorenzo Trevisan, parroco di Merlara e Minotte, è un fiume in piena di emozioni, parole. Sono settimane che sta affrontando insieme alle sue due comunità la tragedia. È costantemente al telefono, a tessere relazioni, a donare conforto in chi resta, in chi fatica a trovare un senso.

La casa di riposo Scarmignan, che ospitava fino a qualche settimana fa 73 persone (quasi tutte positive) seguite da 45 operatori socio sanitari, è stata decimata dall’infezione con più della metà degli operatori contagiati. I professionisti al momento sani, pur consapevoli del rischio, hanno scelto di lavorare per non abbandonare gli anziani superstiti isolati in quarantena.

«Raccolgo tante lacrime di infermieri, assistenti che vivono in parrocchia e lavorano lì – continua don Lorenzo – perché è dura tornare a casa la sera dopo turni massacranti e non poter abbracciare i figli, le mogli, i mariti per evitare il contagio. Cosa provano quando vedono un anziano di cui si prendono cura ogni giorno spegnersi come una candela? Cosa raccontano a casa?». A tutto questo si aggiunge la preoccupazione per la sua, di mamma: «Ha 95 anni, vive con me, ha l’età di chi se n’è andato così…».

Per don Lorenzo gli anziani della Scarmignan erano volti amici:

«Sebbene non fossero originari di Merlara, ormai li conoscevo uno a uno, celebravo ogni mercoledì la messa con loro, partecipavo alle feste, in Quaresima impartivo l’estrema unzione; con i ragazzi dell’iniziazione cristiana abbiamo vissuto più di un incontro per fare esperienza di carità lì dentro. E ora tutta la comunità è angosciata, perché quelle persone anziane e quanti ci lavorano sono parte di noi».

Non si rassegna don Lorenzo. Mantiene i contatti con il consiglio d’amministrazione, il sindaco, raggiunge le famiglie in lutto con una parola di conforto. E resta, profondamente, chi ha scelto di essere:

«Sono prete. Avverto tutta la mia impotenza umana in questo momento della storia, ma so che la preghiera ci aiuta e ci rincuora. Domenica ho avvisato i familiari dei defunti e la comunità cristiana, ho celebrato a porte chiuse in diretta su Facebook una messa in ricordo, nominando uno a uno chi ci ha lasciato. I gesti autentici e di pietà cristiana sono consolatori e non fanno sentire abbandonati. Accolgo il dolore, la rabbia, il dramma umano che stiamo vivendo, ma io stesso non mi sento solo, perché ho una comunità che prega con me, che si stringe intorno per fare forza anche a me nella debolezza. Non sono solo i legami di sangue a essersi spezzati, ma anche tante storie di vita vissuta assieme. Sembra tutto così assurdo, ma sto ricevendo grandissime lezioni di umanità. È un momento strano, ma il Signore ce lo fa vivere in Quaresima, verso la Pasqua, e io sento che dobbiamo fare spazio allo Spirito Santo. È giunto il momento di ascoltarlo, di lasciar fare a lui. Sono convinto che sta già agendo nella fede di molti, vicini e lontani che siano da Dio. Perché non ci fermeremo di fronte al sepolcro vuoto».

Quando i tempi lo consentiranno, la comunità cristiana ricorderà uno a uno in una celebrazione i nomi di chi è salito al Cielo e poi uscirà per le strade, in processione con il Santissimo ad aprire l’orizzonte.

di Tatiana Mario