Nello stesso mare, ma non sulla stessa barca

Carissimi amici,

alcuni giorni fa, dopo aver partecipato alla bellissima celebrazione del papa Francesco del 27 marzo, con la benedizione Urbi et Orbi, ho pensato di scrivergli una lettera personale e ringraziarlo per tutto ciò che compie per il mondo intero; infatti, credo proprio che i suoi gesti parlino più alto di ogni parola e i suoi atteggiamenti di solidarietà e attenzione verso gli ultimi provochino fortemente più che qualsiasi parola proferita.  

Difficilmente, però, questa lettera arriverà nelle sue mani, e così ho pensato di condividere con voi il suo contenuto.

Praticamente, a partire dalla mia esperienza di vita pastorale qui in terra amazzonica, gli scrivevo che purtroppo non stiamo affatto sulla stessa barca (“Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti”): magari possiamo dire che stiamo tutti nello stesso mare agitato dalla tempesta del Coronavirus Covid-19, ma non sulla stessa barca!

E giustificavo questa mia affermazione dicendo che di fronte a questa attuale “tempesta inaspettata e furiosa”, sia a livello di prevenzione, sia in caso di positività al virus, tutti abbiamo in comune quanto espresso nella suggestiva immagine di:

“Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti”

ma c’è, purtroppo, una profonda differenza e divaricazione, ancora una volta, tra ricchi e poveri, e la disuguaglianza sociale è ancora più evidente, oggi più che mai, e non solo qui in Brasile.

E riconoscevo come questa tempesta deve veramente farci eliminare “il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine” per scoprire “quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli”.

Infatti, guardando appena la città di Mirinzal, dove vivo, e il contesto generale del Maranhão, dinanzi a questa tempesta del Coronavirus che agita il mare della nostra vita, vedo come la classe ricca e benestante locale ha la possibilità di isolarsi nello yacht delle loro abitazioni di lusso, dove non manca alcun confort: ognuno ha la sua stanza personale e tutto ciò che possa servire per vivere e comunicare con il mondo esterno virtualmente, e dove perfino la spesa arriva a domicilio (basta solo disinfettare l’imballaggio e metterlo a tavola); caso poi dovessero risultare positivi sono assicurati per loro camere da letto personali negli ospedali privati, provviste ovviamente di macchina respiratoria.

Per questo abbiamo bisogno che, insieme al papa, tutti gridiamo ancora più forte che “avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta” e “non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. Dobbiamo renderci conto che “non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai”.

Poi, qui a Mirinzal, c’è la gente che posso definire “comune”, media, che vive nelle nostre piccole città, e si sforza di salvarsi nelle barche delle proprie case, quasi sempre affollate, dove tutto è in comune: dalla camera da letto al piatto dove mangiare, e di conseguenza diventa difficile mantenere le “distanze”; e in queste barche spesso manca il salvagente di mascherine, alcool gel e quant’altro materiale di igiene e prevenzione; caso poi positivi (difficile saperlo visto che da noi non ci sono ancora i test), nell’ospedale (?) della città non abbiamo neanche una sola macchina che aiuti a respirare.

E in questo contesto, riscopro veridiche le parole di papa Francesco, nel vedere ogni persona che

“esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti”.

E non parliamo, poi, della gente più povera che vive nei molteplici villaggi di Mirinzal: loro per resistere alla tempesta che questa pandemia provoca nel mare della vita, hanno appena la possibilità di una canoa, senza protezione alcuna, dove per affrontare la stanchezza del remare manca non solo cibo sufficiente, ma anche acqua potabile per dissetarsi, per non parlare di igiene! E se dovessero risultare positivi, come per il Bambino Gesù, non c’è posto per loro neanche nei vari ambulatori sanitari esistenti nei villaggi più grandi.

E, allora, diventa vero e urgente mettere in pratica quanto dice il papa Francesco:

“anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”, perché questa “tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità”.

Seguendo, allora, la testimonianza profetica del papa, dobbiamo

“risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare”, e invocare l’aiuto del Signore, perché “abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore”.

Allora, “Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza. Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà”.  

Possa, allora, il miracolo della Pasqua risvegliare in ciascuno di noi il coraggio di costruire ponti di amore e di comunione dove ci sono muri e barriere, di aprire porte di solidarietà dove regna la morte dell’indifferenza e, soprattutto, di competere come atleti di pace e giustizia dove prevale la cultura del silenzio e della corruzione.

La nostra speranza è che questo virus possa essere contenuto, espulso, distrutto e quindi tornare a… “vivere”. Ma una vita nuova, tra noi, nel nostro relazionarci con Dio e anche nel nostro rapporto con la natura, affinché sia più amichevole, più amorevole, più in sintonia e non una relazione di “semplice” possesso, sfruttamento e aggressività: se lo facciamo, allora si risorgeremo. Tutti dobbiamo imparare questa lezione di vita da questa pandemia. Non possiamo più vivere e essere come prima.

Mi auguro che ciascuno di noi sia una “sorpresa” ogni giorno della sua vita: una sorpresa di amore, pace, speranza, gioia e serenità, da dare e fare, godendo ogni momento, ogni emozione e ogni sentimento.

Grazie, carissimo fratello, carissima sorella, se anche tu contribuirai a cambiare te stesso/a e questo mondo!

Grazie a te, carissimo papa e fratello Francesco, per essere profeta/testimone vivo in mezzo a noi: ti siamo affianco e sappi che in quel braccio che mons. Marini ti diede come sostegno e appoggio, nel giorno della benedizione Urbi et Orbi, c’è anche il mio/nostro braccio orante che si sforza di sostenerti nella tua ardua missione. Siamo con te, uniti nella preghiera e nella fatica quotidiana, per costruire insieme il sogno di Dio: il Regno di giustizia e di amore, di pace e di solidarietà, in comun-unione con il creato.

di don Mario Pellegrino, sacerdote diocesano fidei donum in Brasile