Le nuove povertà bussano al Centro di ascolto

Sono le storie delle persone a formare la memoria del Covid-19 della nostra Chiesa diocesana. Uno dei luoghi dove queste storie si incontrano ed intrecciano è senz’altro il Centro di ascolto della Caritas diocesana aperto nei locali dell’Istituto “Contavalle” in via Garzarolli a Gorizia.

Paola e Filippo (i nomi sono di fantasia) sono una coppia come tante che vive in una città dell’Isontino. Lui gestisce un’attività in proprio e lei è dipendente di esercizio commerciale molto rinomato e conosciuto nella città dove abitano insieme a Francesco, il loro unico figlio adolescente.

La loro è una vita che scorre tranquilla sino a quando non arriva l’epidemia di Covid-19. Il periodo di chiusura praticamente azzera le entrate di Filippo mentre Paola si trova, da un giorno all’altro in cassa integrazione: ci sono bollette da pagare, rate di mutui da saldare ed in mancanza di liquidità diventa difficile anche acquistare i generi alimentari necessari per la vita quotidiana. L’aiuto atteso dal Comune tarda ad arrivare, la disperazione cresce di giorno ed allora l’unica soluzione rimasta è quella di rivolgersi al Centro di ascolto della Caritas diocesana.

“Ho messo da parte la mia dignità e vi ho telefonato” confesserà Paola nel primo incontro con la responsabile del Centro. In quella giornata ci sarà, soprattutto, il lungo ascolto di un doppio disagio vissuto contemporaneamente: la nuova difficoltà dal punto di vista economico della famiglia si è aggiunta alla situazione particolare che Francesco sta vivendo.

Anche quando il lockdown è terminato, ha manifestato paura verso quello che lo attendeva all’esterno: è rimasto chiuso in casa rifiutandosi di uscire, terrorizzato dalla malattia ed incapace quindi di riprendere la vita normale di prima. Quell’ascolto è simile a tanti altri di questo tempo ma così lontano da quelli che avvenivano sino a febbraio.

Paola fa capire che ha bisogno di aiuto ma altrettanto chiaramente sottolinea che il suo a che fare con il Centro si limiterà allo stretto necessario: è un modo di trasmettere la certezza (o sarebbe meglio dire l’inconscia speranza) che quanto la sua famiglia sta vivendo è un qualcosa di eccezionale e che presto la normalità ritornerà anche nella loro vita.

Anche in questo caso il Centro di ascolto interviene innanzitutto per un aiuto concreto economico: un aiuto che permetta di superare la difficoltà immediate reso possibile dalla disponibilità dei fondi straordinari concessi dalla Conferenza episcopale italiana anche alla nostra diocesi per fronteggiare le emergenze del Covid-19 attingendo a quanto ricavato grazie all’8×1000.

Ma affida a Paola, al termine del secondo colloquio, anche un messaggio preciso: “Non preoccuparti. Se vuoi e quando vuoi possiamo risentirci ed aggiornarci: se hai ancora bisogno sai dove trovarci”.

Nel raccontarmi questo episodio, Agnese DeSantis, la responsabile del Centro di ascolto diocesano, mi evidenzia che “questi utenti, che definiamo “nuovi” perché non gli conoscevamo prima del Covid-19, ci interrogano su fino a che punto e con che modalità possa spingersi il nostro aiuto. L’assegnazione della tessera di un Emporio della solidarietà od il pagamento di una bolletta sono fatti “tecnici”, ormai consolidati: oggi ci viene chiesto un supporto ulteriore, soprattutto dal punto di vista psicologico, a persone che si trovano a vivere situazioni nuove ed inaspettate. Dobbiamo noi stessi ritarare i nostri standard”.

Mi aiuti a comprendere questa “ritaratura”?

Ci troviamo dinanzi a uomini e donne che dopo avere speso tutti i propri risparmi per saldare le bollette e pagare gli affitti non hanno la possibilità di acquistare di che sfamarsi: per non lasciarsi alle spalle dei debiti rimangono senza cibo. I poveri “abituali” invece lasciano indietro le bollette e comperano da mangiare: sono abituati ad avere dei debiti. C’è un modo completamente diverso di affrontare la povertà: è per noi, questo, è stata una scoperta.

Come ha cambiato la vostra attività l’emergenza Covid-19?

Lo scoppio improvviso della pandemia di Covid-19 non ha permesso il proseguimento dell’attività del Centro di ascolto diocesano nella maniera consueta dell’accesso libero su appuntamento: siamo stati costretti a rivoluzionare completamente il nostro modo di lavorare. In un primo momento, per salvaguardare la salute di chi si rivolge a noi ma anche quella dei volontari, a fronte della chiusura dei locali del Centro abbiamo attivato un numero di cellulare per mantenere la reperibilità e consentire una riposta immediata alle richieste urgenti.
Appena le disposizioni governative e regionali ce l’hanno permesso, nel mese di maggio, abbiamo riavviato gli incontri in presenza, su appuntamento e rispettando le misure di prevenzione. Oggi  continuiamo a lavorare in questo modo.

Quali sono state le conseguenze di questa riorganizzazione del modo di operare?

Indubbiamente la riorganizzazione non è stata facile: le disposizioni per la prevenzione sanitaria non ci hanno permesso per lunghe settimane di avere dei colloqui in presenza e quindi relazioni semplici e serene, come, peraltro, sarebbe necessario in un contesto delicato come quello in cui operiamo. Nel periodo in cui l’unico contatto avveniva telefonicamente le difficoltà che abbiamo dovuto affrontare non sono state poche: non era facile comprendere, magari con la linea disturbata, il racconto di persone che non sempre parlano e capiscono bene l’italiano.
Va poi considerato che molti volontari dei Centri di ascolto sono persone avanti con gli anni che non se la sono sentita di proseguire nel loro impegno dinanzi alla gravità della situazione sanitaria: ancora oggi stiamo lavorando con metà del personale pre-lockdown.
Abbiamo, comunque, sempre cercato di offrire la migliore risposta possibile alle richieste e questo grazie anche al sostegno del direttore e di tutto il gruppo di lavoro della Caritas diocesana.

Ci accennavi al numero di cellulare che avete messo a disposizione…

Sino alla fine del mese di marzo le telefonate sono state poche, meno, probabilmente, del numero che si saremo aspettati: le persone avevano ancora molta paura di uscire di casa. Da inizio ad aprile il numero dei contatti è aumentato. Il dato interessante era che per la maggior parte quelle chiamate provenivano da persone nuove, sconosciute al nostro Centro di ascolto ma anche ai servizi sociali dei comuni del territorio.

Quali richieste vi rivolgevano?

La maggior parte delle richieste riguardava l’aiuto alimentare e quindi la necessità di ottenere la tessera per accedere agli Empori della Solidarietà ed un supporto per viveri di prima necessità: molte amministrazioni locali non si erano organizzate ancora con la Protezione civile per la distribuzione dei buoni spesa e quindi diverse persone, trovandosi senza lavoro, si sono trovate nella necessità di rivolgersi a noi.
Un gesto che sino a pochi mesi or sono non si sarebbero mai immaginate di dover compiere tenuto conto che molti di loro rientrano nella categoria di quanti diciamo normalmente “stanno bene”: negozianti, piccoli imprenditori, gestori di strutture ricettive… Ci siamo trovati dinanzi soprattutto italiani: se prima dell’emergenza Covid l’utenza era divisa quasi equamente fra stranieri ed italiani, oggi i secondi rappresentano i tre quarti di chi bussa alla nostra porta.
In questo periodo è andato intensificandosi il rapporto con i Servizi sociali. In un primo momento, mentre questi si organizzavano, noi siamo riusciti ad intervenire più velocemente, accelerando l’iter burocratico ed evitando che domande di aiuto rimanessero senza risposta; oggi procediamo in stretta sinergia, cercando di collaborare – se possibile – ancora più di prima.
Oltre all’accoglienza di nuove persone abbiamo assistito anche ad un ritorno di famiglie che non si facevano vedere da molti anni, diverse delle quali originarie dei Balcani. Abbiamo “ritrovato” famiglie che al momento dell’arrivo nell’Isontino alla fine degli anni ’90 si erano trovate in difficoltà e per questo si erano rivolte alla Caritas: la loro situazione si era poi stabilizzata con l’entrata nel mondo del lavoro (specie nel campo dell’edilizia) e quindi il rapporto era venuto meno. Oggi, dinanzi alla nuova difficoltà, si sono presentate nuovamente nel nostro Centro.

Tu accennavi poco fa alle nuove persone che si sono rivolte per la prima volta al Centro di ascolto. Immagino che questo significhi anche trovarsi dinanzi a nuove emozioni?

Soprattutto nei colloqui non è stato facile gestire le nuove emozioni portate dalle nuove persone. Faccio un esempio fra i tanti che abbiamo vissuto. Si è presentato da noi un uomo che gestisce un piccolo negozio mentre la moglie è dipendente del settore privato, in un’attività che ha risentito della chiusura per lock-down: una coppia abituata ad un certo tipo di vita che improvvisamente, da un giorno all’altro, ha visto sgretolarsi le proprie certezze sul presente ed ancora di più sul futuro.
Il racconto di quello che stavano vivendo e delle necessità cui dovevano far fronte li ha portati a ricercare un ascolto diverso rispetto a quello della nostra utenza classica: sono stati colloqui più intensi ed anche, per noi, più difficili.
Ci sono state, inoltre, diverse persone, soprattutto anziane, che telefonavano per avere compagnia, per superare la solitudine nel non poter vedere ed incontrare i figli ed i nipoti.
Un’altra nuova esigenza emersa è stata quella della povertà educativa. La didattica a distanza ha fatto emergere la necessità di supporti informatici per accedere alle lezioni: non sono state poche le famiglie che si sono rivolte a noi per ottenere un aiuto in questo senso. La collaborazione con la parrocchia goriziana di San Rocco – che si è immediatamente attivata lanciando un appello e raccogliendo diversi computer – ci ha permesso di intervenire e permettere anche a questi ragazzi di seguire le lezioni e mantenere il rapporto (anche se solo virtuale) con i loro compagni.

Come hanno saputo queste persone nuove che voi eravate qui?

Le persone che si sono rivolte per la prima volta al Centro di ascolto lo hanno fatto in molti casi perché ci hanno “scoperto” attraverso i social: in questo caso i mezzi di informazione hanno veramente funzionato! Altri, conoscendo la Caritas e sapendo come operiamo, ci considerano l’ultima risorsa dove andare a rivolgersi nei momenti di difficoltà e lo hanno fatto anche in questa occasione.

Cos’è la povertà, in questa estate 2020, vista dal vostro Centro di ascolto?

La povertà in questo momento è una situazione in cui le persone si sentono private della loro dignità. La povertà più grande che vediamo oggi è quella occupazionale: chi si rivolge a noi chiede con insistenza un aiuto per trovare un lavoro proprio perché è questo che potrebbe restituirgli quella dignità che sentono di avere perso. Non possiamo poi dimenticare la povertà dal punto di vista relazionale: accanto agli anziani soli dobbiamo anche pensare agli italiani o stranieri che non hanno legami con il territorio, non sanno con chi rapportarsi, a quali porte bussare, come rispondere alle domande della burocrazia… Nasce così la necessità di un sostegno e di un accompagnamento che devono protrarsi nel tempo.

Qual è la situazione oggi? Cosa è cambiato rispetto il momento della chiusura e dell’emergenza sanitaria dei mesi scorsi? Quali sono le attese per il domani?

La sensazione, sentendo quanti si rivolgono al nostro Centro di ascolto, è che questo momento difficile proseguirà ancora a lungo: dobbiamo prepararci alle ripercussioni economiche e sociali di quanto vissuto da marzo ad oggi. Molte persone magari hanno ricominciato a lavorare, hanno ripreso uno stipendio pieno ma devono adesso fare i conti con le situazioni rimaste in sospeso nel periodo da marzo a maggio.
Penso, ad esempio, agli affitti o ai prestiti che sono stati congelati ma che ora devono essere pagati con il rischio concreto di un aumento degli sfratti e degli insoluti…
Se ci limitassimo ad analizzare l’aspetto comportamentale potremo dire che le persone tendono ad abbassare la mascherina, sono più tranquille: ma andando un po’ più a fondo nei colloqui personali ci si accorge che c’è tanta incertezza. Non si sa quanto durerà questa situazione e persiste una paura diffusa di quella seconda ondata di epidemia di cui si parla tanto.
Più di qualcuno mi ha confidato: “se si blocca tutto un’altra volta non so proprio come farò a sopravvivere”. Chiudere nuovamente le attività economiche significherebbe non permettere a tante persone di avere l’occorrente per una vita “semplicemente” dignitosa.
Penso che questa fase di transizione, di attesa, possa protrarsi almeno sino a settembre-ottobre: dovesse ripetersi quanto vissuto in primavera non vedremo solo aumentare il numero dei nuovi poveri ma rischieremo di assistere al colpo definitivo per un numero di persone che oggi nemmeno possiamo immaginare. In questi mesi tante persone hanno saputo attivare uno spirito di solidarietà: credo sia fondamentale che esso non rappresenti un episodio momentaneo ma possa continuare ad alimentarsi.

di Mauro Ungaro