Ricoverato in terapia intensiva all’ospedale di Pinerolo il 19 marzo, due giorni dopo il suo cinquantanovesimo compleanno, Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, è stato sottoposto al pesante ciclo di cure, compresa intubazione e tracheotomia, toccato più o meno uguale a migliaia di persone colpite pesantemente da Covid-19. “Sono vivo per miracolo”, confessa. “Sono ancora nel reparto di rianimazione, ma sto bene”.

Don Derio, cosa vuol dire vedere la morte negli occhi e doverci fare i conti a tu per tu?

Ci sono stati due o tre giorni in cui avevo chiarissimo che stavo morendo. Prima di essere intubato il medico mi aveva detto che ero grave. Sapevo che di coronavirus si poteva morire. All’inizio si pensava che morissero gli ottantenni e i malati, poi si è visto che non era così. Vicino a me è morto un signore con tre anni in più di me. Ho capito che poteva toccare anche a me. Ci sono giorni in cui ho sentito la morte, e mi sembrava che tutto evaporasse in me e intorno a me. Si prova un senso di verità indicibile. La morte fa la verità. Sei chi sei, non puoi barare, non ti puoi nascondere dietro a niente, non ci sono giustificazioni. Un senso di verità così non l’avevo mai provato.

E poi le cose evaporano, tutto evapora, non so come spiegarlo con parole diverse. E questo mentre stavo morendo, perché io non stavo pensando alla morte, stavo proprio morendo.

Restano forte, ma proprio forte due cose: la fiducia in Dio e le relazioni profonde che hai costruito. Io sentivo, io ero quelle due cose. Ero quanta fiducia riuscivo ancora ad avere. E tutte le relazioni che avevo erano lì. Uniche cose a non evaporavano, erano anzi molto dense e piene. E con esse la verità di me, su di me.

Il rischio di morte le è stato comunicato dai medici?

I medici non mi hanno detto “adesso muori”, ma sono stati molto chiari. Quando poi mi sono risvegliato e stavo meglio, mi hanno spiegato.
Quando mi hanno tolto il tubo, sono peggiorato di colpo. Mi hanno portato in sala rianimazione e mi hanno ripreso per un soffio, tagliando al volo. Ero morto. Sono stato per un po’ senza respirare. Se me l’avessi chiesto prima: sì, io-ho-paura-della-morte, avrei risposto. Credo in Dio, alla risurrezione, ma la morte mi ha sempre fatto paura. In quei giorni però ho sentito una forza che mi ha mantenuto in pace anche nei momenti in cui – ne ero certo – stavo morendo. Una volta nel sogno/incubo ho visto la bara, la mia bara. Eppure non c’è stato un attimo in cui mi sono agitato o spaventato. Questo -l’ho capito dopo – è merito dell’oceano di preghiere di tantissima gente che ha pregato per me, a Pinerolo, a Fossano, in monasteri, in famiglie…. ovunque. Io non lo sapevo ma lo percepivo. La preghiera è davvero una cosa seria e potente. Mi ha tenuto in vita.

A te, quale preghiera sorgeva immediata, spontanea?

L’Ave Maria. Ho detto tanti rosari. La preghiera più semplice e più bella.

Dicono che il primo sintomo certo del Covid sia la perdita del gusto. Tu hai scritto un libro di successo su “Il gusto della vita”. Dopo questa tua “straordinaria” esperienza qual è il gusto della vita che ti rimane?

La prima cosa che riscopri è la bellezza del respiro. La gratuità, la fortuna del respiro. Ogni respiro è un regalo… .
Quando sei intubato respiri, ma è lamacchina che lavora, prima il respiro si era fatto corto, sempre più corto… respiri sempre di meno e ti chiedi se arriverà ancora il prossimo respiro… Diventa un ossessione. Un mio incubo, una volta intubato, era di finire sott’acqua annegato. Come se qualcosa mi spingesse sott’acqua. Ho un po’ di paura dell’acqua, nuoticchio ma non mi sento sicuro. È fame d’aria, la paura è di soffocare, che è tipico di questa malattia. Quando ho ripreso a respirare ho finalmente colto in pienezza il significato del “Ruah di Yahweh”, il respiro di Dio. Dio che crea Adamo immettendo in lui il suo respiro, lo spirito. Mamma mia se l’ho capito!
E allora, ho una voglia pazza di andare in un bosco soltanto per stare lì a respirare. Quando hai visto la morte da vicino, hai voglia di apprezzare ogni cosa bella. Cercare e trovare la bellezza ovunque, perché davvero c’è e val la pena non sprecarla.
Uno degli incubi che avevo, è che là dov’ero finito (chissà perché credevo di essere in Francia) c’era un signore che aveva trovato il modo di vincere l’epidemia: bastava abituarsi al brutto. Adeguarsi e aderire a tutto ciò che è brutto e  il morbo sarebbe diventato niente. E allora ci faceva vedere e fare solo cose brutte, la cattiveria. “Se vi abituate a questo il morbo scompare”. Per questo ci faceva vedere solo animali che fanno senso, sformati, in disfacimento, e ci faceva essere cattivi. Lui era cattivo: aveva un coltellaccio e ogni giorno ci tagliava in pezzo e se lo mangiava. E io avrei dovuto abituarmi e fare mia questa cattiveria.

Credo che la vita debba essere l’opposto: fare cose belle, vedere cose belle, attorniarsi di cose belle, e fare cose buone. E saperle vedere, apprezzare e valorizzare intorno a noi. Ce ne sono tante.

Quale conforto, quale benedizione ti senti di inviare a chi di Covid è morto o morirà e ai suoi parenti e amici?

Mi pesa e mi spiace tantissimo per chi è morto in solitudine. Quando ero certo di morire, pensavo ai volti di tante persone che non avrei più potuto vedere né salutare. Normalmente chi muore, negli ultimi giorni ha intorno tante persone care, ti tengono la mano e ti accompagnano, le puoi salutare. Io mi vedevo morire solo. E quindi vorrei che a tutti i parenti che hanno avuto persone morte in solitudine durante la pandemia, arrivasse questa consolazione per la sofferenza enorme che deriva dal non aver potuto stare vicino ai loro cari, neppure più vederli. Prego per loro. Con l’augurio che possano riconciliarsi con questo peso che sicuramente hanno dentro. A chi è morto auguro la gioia del paradiso e che possa ritrovare  in cielo gli affetti cari che qui non ha potuto più incontrare. Perché questo è quello che qui si è vissuto e si vive.

Un grazie e una raccomandazione che senti il bisogno di fare oggi a tutti.

Di grazie ne dico tre. Il primo a Dio. Il secondo a tutti quelli che mi sono stati vicini nella preghiera e con l’affetto. E poi soprattutto a medici, infermieri e tutto il personale di questo ospedale. Fantastici. Qui ho trovato un reparto di eccellenza medica e umana.
Una raccomandazione la voglio fare, da vescovo. L’epidemia non è una parentesi che si è aperta e si chiuderà: abbiamo interrotto le nostre attività, poi riprenderemo e si ricomincerà tutto come prima. No! Questa è stata e deve essere un’opportunità per riflettere. Ha stimolato anche un altro modo di fare  pastorale, di essere chiesa.  Mai come adesso ho visto momenti di preghiera nelle famiglie. Sarà guardare la messa insieme in streaming, sarà il rosario o un momento di meditazione, perché tante parrocchie si sono attivate per offrire queste possibilità, ma si è ripreso qualcosa che era quasi scomparso: meditazione comune o preghiera personale o famigliare. Il nostro cristianesimo ha bisogno di ritrovare la dimensione famigliare perché se c’è solo la messa e nient’altro, quel cristianesimo è già morto. In una comunità dove c’è la messa e niente altro,  la comunità non esiste. Il cristianesimo è anche parola di Dio, è preghiera personale, è silenzio, è studio, è andare ad una cappellina ad accendere una candela, è anche fatto di gesti e si declina in tanti altri modi. Abbiamo scoperto o riscoperto delle cose, Dio ci indicato delle strade nuove oltre a ciò che di bello già facevamo, manteniamole, facciamole crescere, lasciamo che ci parlino.

Sembri avere una coscienza precisa di quanto hai vissuto.

Ricordo perfettamente tutto quello che ho vissuto, minuto per minuto. Anche i sogni, gli incubi, quelli belli e quelli brutti. I pensieri e le cose che volevo fare. Anche nei giorni più tremendi. Due o tre giorni dopo il mio compleanno sognavo (deliravo?) di voler offrire champagne a tutti per festeggiare. Ho fiducia, arriverà anche il tempo per festeggiare.

di Ezio Bernardi