«Ho pensato che ce l’avrei messa tutta per svegliarmi di nuovo, perché volevo rivedere il sorriso di mio marito e quello di mia figlia». Al telefono, la voce di Mariangela Cuter, docente di inglese di 33 anni, pare, per un momento, vibrare, ma la commozione dura solo qualche secondo ed è giusto una breve parentesi all’interno di un racconto lucido e carico di speranza. Tutto inizia i primi di marzo, con una brutta febbre. «Verso la trentasettesima settimana di gravidanza, ho incominciato ad avere la febbre – racconta Mariangela Cuter, che, originaria di Osio Sotto, vive, da tre anni, ad Erbusco, in Franciacorta, con il marito –, sono rimasta a casa per sette giorni, curandomi con la tachipirina. Dopo una settimana, però, la temperatura non era scesa e mi sono un po’ allarmata, dato che mi sentivo molto debilitata e mancava ormai poco al parto. Il medico di base mi ha tranquillizzata e consigliato di continuare a prendere la tachipirina. Ad un certo punto, però, ho comunque preferito sentire la mia ginecologa, che lavora al Poliambulanza di Brescia: mi ha suggerito di andare al pronto soccorso».

“La febbre non passava, sono andata al Pronto soccorso”

Venerdì 13 aprile, al Poliambulanza, Mariangela, dopo alcuni controlli, viene ricoverata. «Avevo portato con me una valigia, in previsione del parto (che sarebbe dovuto avvenire il 23 di marzo), ma, in realtà, ero convinta che tutto si sarebbe risolto con la prescrizione di un antibiotico – afferma la donna –. Durante la notte, i medici mi hanno fatto tutta una serie di prelievi ed esami e, ovviamente, pure il tampone per verificare se avessi contratto il Coronavirus. Dopo due giorni, è arrivato l’esito: positivo. Ho incominciato ad avere paura, anche perché, nel frattempo, è comparsa la tosse e una certa fatica a respirare. Il 15 di marzo, mi trasferiscono agli Spedali Civili, mentre il 16, dopo avermi comunicato come le mie condizioni non fossero per niente buone, i medici mi dicono che avrei dovuto fare un cesareo d’urgenza di lì a mezz’ora».

Il parto cesareo d’urgenza. Poi subito in terapia intensiva

Sono minuti concitati, pieni d’ansia, ma l’operazione va a buon fine e, alle 16.53, nasce Emilia. Mariangela non può però stringere la bambina a sé. «La bambina stava bene, il suo tampone è risultato poi negativo: la sentivo piangere e questo mi confortava – spiega Mariangela –. Ho però potuto vederla solo da lontano, a causa della mia positività». Ma il peggio deve ancora arrivare: «Rientrata dal cesareo, non mi rendevo conto di quanto le mie condizioni fossero gravi. I medici decidono quindi di portarmi in terapia intensiva e, per la precisione, nella sala rianimazione della pediatria che, in quel momento, era vuota. Lì, vengo sottoposta a diversi tipi di maschere per l’ossigeno, finché non mi inseriscono il casco Cpap. Gradualmente, però, la saturazione peggiora: dopo due giorni, i medici scelgono di sedarmi e intubarmi».

“Ho chiamato mio marito e gli ho detto che avrei potuto non farcela”

Una decisione che fa prendere coscienza a Mariangela di poter morire: «Ho telefonato a mio marito Paolo e gli ho comunicato che avrei potuto non farcela. È sempre un tabù parlare della propria morte, soprattutto a chi si vuole bene, ma non volevo rendere banale quel momento: gli ho detto che ero felice della mia vita, che lo amavo, che ero contenta di quel che assieme avevamo costruito e che questo mio sentire doveva rimanere in lui. Ho domandato ai medici, inoltre, se l’avrei potuto incontrare. Hanno acconsentito. Paolo ha preso tutte le precauzione necessarie e, nel pomeriggio, per qualche secondo, siamo riusciti a vederci e a sfiorarci le mani: è bastato uno sguardo, ci siamo capiti. Poi, è stato il vuoto».

La lenta strada verso la guarigione

Tre i giorni di sedazione stabiliti, ma i miglioramenti stentano ad arrivare e Mariangela rimane intubata e dormiente per quasi una settimana. Fino alla svolta: «Non ho un ricordo preciso di quando ho aperto gli occhi – dice Mariangela –. Mi rammento, però, come avessi tanta voglia di far sapere a mio marito Paolo quanto lo amassi. Piano, piano, ho ricominciato a stare meglio: una volta che mi hanno estubata, sono stata dieci giorni in rianimazione, per essere spostata, successivamente, in ginecologia, dove i tamponi hanno poi decretato la mia negatività al virus».

“Quando ho visto mia figlia sono scoppiata in lacrime”

A 18 giorni dal parto, Mariangela può vedere la figlia («Un’emozione incredibile, sono scoppiata a piangere») e, dopo una serie di esami e controlli, domenica 5 aprile, finalmente, torna a casa. Ma Mariangela è una donna cambiata, diversa: «La possibilità di morire scava un solco fra la tua vita passata e quella presente, fra ciò che eri e ciò che sei – afferma Mariangela –. Nel mio caso, sono due gli aspetti che mi hanno colpito: la vicinanza delle persone e il ritorno alle priorità. Per quanto riguarda il primo punto, è stato commovente notare quante persone mi sono state vicine: ne sono rimasta stupita. Dai medici al personale ASA, dagli infermieri agli addetti alle pulizie: nonostante il momento di emergenza e frenesia che tutto il Paese stava vivendo, ognuno di loro, con pazienza, passione e umanità, si è preso cura di me, vestendomi, lavandomi, dandomi da mangiare e, soprattutto, chiamandomi per nome”.

“Tante persone vicine con affetto e preghiere”

Un momento significativo è stato quando, tornata in ginecologia con 18 chili in meno e senza la forza di stare in piedi, mi hanno confessato come si sentissero contenti nel vedermi stare meglio, come mi stessero aspettando. È stato per merito loro che, nei giorni successivi all’estubamento, ho potuto vedere mio marito e mia figlia, grazie a un tablet messo a disposizione per i pazienti. Ma la vicinanza è stata anche quella degli amici o dei semplici conoscenti e delle loro preghiere: tante persone si sono strette vicino a me e alla mia famiglia, dedicandomi un frammento del loro tempo. Non pensavo di essere così amata e sono grata per questo. Paolo mi ha raccontato che i nostri vicini, spesso, gli portavano qualcosa da mangiare: quando sono ritornata dall’ospedale, hanno attaccato degli striscioni sui balconi e mi hanno accolto in modo festoso. In tutto ciò, ho scoperto e continuo a scoprire il senso di vivere in un periodo difficile come questo». E poi ci sono le priorità: «Amo molto il mio lavoro, ma, forse, gli ho sempre dato troppa importanza e la stessa cosa vale per la cura della casa o altre fisime – spiega Mariangela –. La vicinanza della morte ti rende umile e cosciente di ciò che più conta nella vita: incominci a mettere ogni cosa al proprio posto, in ordine e comprendi come le priorità siano altre, come la salute, la serenità e, soprattutto, la famiglia, gli affetti e il tempo. Ma anche l’attenzione verso il prossimo, verso chi è completamente solo. È però facile dimenticarsene: quando salute e routine tornano, è semplice smarrirsi di nuovo».

“Nella vita l’unico successo è amare e poter essere amati”

Dello stesso parere, il marito Paolo: «Ho alle spalle un percorso simile a quello fatto da mia moglie: nel 2009, mi hanno diagnosticato la sclerosi multipla. Lo dico sempre a Mariangela: se potessi permettermelo, farei il “casalingo” a vita: la professione che svolgo mi piace, ma è il tempo che dedichiamo a noi stessi e agli altri ciò che di più importante abbiamo. Ma è facile scordarsene, è fisiologico. La possibilità di perdere mia moglie mi ha tagliato le gambe e mi ha riaperto gli occhi: nella vita, l’unico successo è quello di sentirsi felici, di amare e di poter essere amati. Solo questo conta». Una convinzione accompagnata dalla fede. «Perdere Mariangela mi pareva una beffa e un’ingiustizia – racconta Paolo –, ma è anche vero che, a volte, mi dimentico come il Dio in cui credo sia stato sconfitto sulla croce. E il Suo gesto d’amore non è uno schiocco di dita che ribalta la situazione, ma è un lasciarsi morire per permettere all’uomo di chiedere perdono. Do ut des: pensiamo che basti una preghiera per cambiare le cose in meglio, ma non è così. Bisogna essere aperti a tutti gli esiti, anche a quelli più funesti, perché pure Lui ha attraversato lo strazio della sofferenza. Forse, risulta facile, per me, parlarne ora. Ma mai mi sono sentito arrabbiato con Dio, al contrario: in questo calvario, è stato un buon compagno di viaggio. Amare è prendersi cura e aspettare, ogni giorno, il proprio amore. È avere coraggio».

“Ho ritrovato il vero senso della vita”

Coraggio che a Mariangela non è mancato: «Al sacerdote che mi ha dato l’unzione degli infermi, ho detto che volevo vivere con fede questo passaggio. Non mi sono chiesta “come mai a me?”, però mi sono domandata perché nel mentre di una gravidanza». Coraggio che muta in forza e testimonianza: «In camera nostra, da diversi mesi, è presente questa frase: “È sapere di essere amati la vera gioia di ogni risveglio”. Col senno di poi, posso dire quanto sia stata profetica questa frase. Anzi, è stato proprio l’amore per Paolo ed Emilia il motivo per cui ho lottato e per cui mi sono svegliata di nuovo. Ne sono certa: continuare ad amare è fondamentale, anche e soprattutto quando ci si sente sopraffatti dall’angoscia e dal dolore. È questo che dà senso alla vita».